Bevor

Sono stato appena chiuso dentro una cucina sformata e mercescente, col pavimento pieno di solchi e tappezzato di scotch, la muffa che sfuma il bianco di almeno due pareti e un odore di fritto bruciacchiato da tagliarsi le mani. Mi sono seduto sul piano di lavoro accanto al lavello: sedie non ce ne sono. Mentre dondolo i piedi sbattendoli leggermente contro l’ anta che si materializza sotto il mio culo, fisso l’ ampia finestra che guarda la casa di fronte. Il rumore spinoso del frigorifero spezza il suono dell’ attesa e colora di ulteriore noia una domenica d’ autunno che proprio non vuole saperne di darsi un senso. Accanto alla macchinetta del caffè vedo un panetto di burro appena sbucciato. Se trovo del miele bello denso, penso, mi apro due fette di pane e mi sparo una diade gluco-lipidica da stordirmi per terra. Qualcuno sta usufruendo delle scale in legno di casa, ma non so chi. Sul tavolo c’è un posacenere con dentro un cannone ucciso in età prematura: immagino le facce di chi c’ha messo le labbra. Slitto giù e inizio a peregrinare per la stanza, e mi perdo tra le linee caotiche del pavimento in pietra. Non sono neanche dieci giorni che mi ero convinto di volermi uccidere, lasciando che questo pensiero coinvolgesse anche persone che non avrebbero mai dubidato della mia costanza e voglia nell’ esistere. Sono in questa cucina perché Per Gli Altri sono ufficialmente un soggetto stanco, con problemi, da riabilitare e da aiutare. Da coccolare. La spoliazione della mia segreta insofferenza è stata violenta e inattesa, in netto contrasto con la fissità antonioniana di questa casa e dei suoi abitanti, che gentilmente si presteranno a farmi da compagnia e da conforto. Perchè sai: sto male. Ma sono nato un giorno di ormai tanti anni indietro che fanno quasi trenta. Per sei onesti anni non ho ricordi fondamentali, se non qualche pisciata in branda causa intimo tepore e ingenuo sognar. Volevo fare il calciatore da stadio che ancora usavo le scarpe a strappo. A casa il clima non era dei più giocondi, e allora andavo in giro per il paese correndo, perché speravo che qualcuno  casualmente mi vedesse e notasse quanto fossi strano, cosicché non si sa mai perché no magari sai mi sarebbe stato chiesto del perché di siffatto dinamismo sghembo, costringendomi e rivelare di quel clima casalingo non dei più giocondi. Sotto casa mia partiva un viale di carpini: che bel suono CARPINI. Avevo un solo amico: era un tipo coi capelli fonati indietro a palla e una cifosi di grande effetto scenografico. A casa sua non c’era nemmeno un bel clima. Le pomeridiane sessioni di cazzeggio da lui consistevano in qualcosa del tipo io che guardo lui giocare al computer per tre ore. Una violenza che la mia fanciullesca ingenuità non tollerava ma non contrastava. A scuola bruciavo le pagine e mi mangiavo i libri mentre mia mamma mi scolava la pasta; ero cazzutissimo sul contesto vichingo e non avrei già allora disdegnato un ripristino pragmatico dell’ eticità visigota. Fui io a rivelare alla mia maestra di come i Celti usassero l’ urina per impaccarsi i capelli – senza invero accertarmi della veridicità dell’ informazione trovata in un libro un po’ così. Abitavo a culo di una montagna, la nebbia del tardo pomeriggio di febbraio che ti gelava le narici e insonorizzava la campagna, campi di granturco in ogni dove e odor di pigna ad ogni recinto di ogni casa dove ogni giorno passavo per andare a giocare a calcio in un campetto vicino a un fosso il cui sputo d’ acqua mi affascinava e mi abbracciava. La maestra Margherita era un donnone dal seno enorme e dal disegno suino, con una corporatura a pera del tipo testa piccola braccia fine ventre contenuto e un culo che da seduto si spargeva ovunque sulla sedia. Come Blob. Fu una delle poche a condividere con me la questione dell’ asetticità compositiva nella figura di Eric Clapton-musicista nel periodo Derek And The Dominos. Quando avevo dodici anni piangevo molto, perché a casa non era cosa, ma avrei pianto di più se avessi saputo che intorno ai trenta avrei perso un amico che così non ne trovi. Avrei pianto meno se avessi saputo che sarei stato capace di innamorarmi e di amare donne che neanche nei film. Avrei detto Ma Non Credo Proprio Sai se mi fossi visto in acido a ballare il suono del vento sotto la foresta di Tikal, invocando spiritualità Maia e cancellando alcuni messaggi dal cellulare Nokia 3210 causa memoria piena e contemporaneo messaggio in arrivo; che avrei dovuto ritrovare più volte la sensazione di disabilità linguistica e sociale in posti in cui sarei capitato a vivere, lontano dalla mia terra; che avrei volato in grande slancio e con la migliore delle camicie sulle armonie più dinamiche dell’ esperienza emotiva, collocandomi caoticamente in porzioni di esistenza a)scura b)luminosa; che avrei assaggiato il sapore di una cavalletta fritta; che avrei suonato la chitarra con affezione ma senza fanatismo; che avrei dato un esame universitario all’ Università di Dresda sul metacinema danese degli anni ’90, numero 10 in lista e per tre ore cursorio compagno di conversazione di una certa persona; che avrei concepito a puro scopo ludico centinaia di eventi semantici e che una ventina sicura di questi sarebbero stati introdotti e costantemente utilizzati da davvero tante persone; che sarei stato sempre un bugiardo e una pusillanime ipocrita testa di cazzo, e che questa cosa la pensassi principalmente solo io – sapendo nascondere me stesso in quanto appunto bugiardo – e che questa cosa mi avrebbe messo più volte nella condizione di dubitare della purezza dei miei stati emotivi; che avrei concluso l’ esperienza della raccolta delle figurine Panini poco prima del mondiale 2006 e che sarei rimasto sempre scettico sulla bontà della decisione; che avrei ascoltato musica per ricavarne sconvolgimenti epidermici e per definire alcune catarsi del mio essere; che avrei sviluppato una dipendenza da maionese.

Che sarei finito in questa cucina, a far penzolare le gambe.

Sono appena arrivato, ancora svuotato dal viaggio di venti ore. Soffro ancora per i postumi di una microfrattura al polso di mesi fa. Sulla gamba, in zona tibia, una grande macchia rossa circolare ha moltiplicato sulla sue superficie residui di pelle morta, a ricordarmi la cheratosi assassina che da un anno mi sta consumando le unghie e potando la peluria. In treno ero stato coinvolto in una due-ore di eccessiva verbosità, incastrato dentro il dai-e-vai funambolico di una cabina gineceica. Banalmente: divertente. Avevo guardato scorrere le colline fuori dal vetro e allontanarsi sempre più da tutto quel parco-sfighe che avevo messo insieme nel posto in cui vivevo da anni e che per asindeto esplodeva nella mia rimuginante immaginazione, venata comunque di un controllato senso di nostalgia che mi faceva desiderare di rivedere quel periodo in lingua originale.